News  ·  03 | 08 | 2018

Resistenza eretica

Menocchio - Concorso internazionale

Magari dopo aver visto Menocchio qualcuno avrà voglia di saperne di più di questo cocciuto mugnaio, dalle parole taglienti come l’accento della sua parlata; tuttavia, per quanto importante, il messaggio del film non è né il punto d’arrivo né di partenza. Il film di Alberto Fasulo si deve sentire e vedere, prima che comprendere. Sono i tagli di luce sui volti, il suono delle parole in dialetto friulano: per una volta si ha l’impressione che questi non siano i filtri per offrire una prospettiva da cui leggere una storia, ma la storia stessa. Menocchio è un film di poca luce e di scandalosa prossimità ai personaggi (non tutti ovviamente). Fasulo conosce bene i film di Pasolini; però nel suo guardare in faccia le persone umili non mette in mostra nessuna intenzione di sovralettura. Basta vedere il modo in cui viene usata l’illuminazione. È un qualcosa che sta tra il taglio pittorico e l’estremo realismo. A me pare che questi volti – quello di Menocchio e di sua moglie, quello dei figli o dei compaesani – nascano per la prima volta quando la luce li illumina. La parola diventa allora qualcosa di diverso. È, certo, la risposta a una domanda che piomba dall’alto, ma al contempo si tratta di una parola che sa di terra. In questo senso Menocchio, prima di essere un film d’epoca (il Cinquecento), un film su un’esperienza di libertà (repressa) è un film che viene dalla frontiera, quella geografica di un Friuli, cerniera tra il Sud e il Nordest, e quella simbolica di chi sta in provincia. E si strania quando è chiamato in città. È la stessa sensazione che si ha quando si legge Pavese o Fenoglio: il senso di un territorio che ha trovato qualcuno in grado di cantarlo toccando le giuste corde.

 

 

 

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