News  ·  04 | 08 | 2018

Cinéma Dumont

Intervista a Bruno Dumont, Pardo d'onore Manor

Con questo Pardo d’onore, Locarno omaggia il suo percorso registico, che attraversa opere estremamente diverse per ispirazione, soggetto e stile. Al di là di questa varietà, c’è però qualcosa che cerca sempre nei suoi film? 

Certo che c’è qualcosa che cerco: se non cercassi, non farei del cinema. Ciò che mi interessa è andare a scandagliare la natura e le persone, andando al mistero delle cose che non capisco. Filmo ciò che non capisco. 

 

E come si aspetta che il suo spettatore risponda a questo “non capire”? 

Penso che il cinema sia una conversazione. In effetti tutta l’arte del cinema è andare verso lo spettatore: l’immagine è una sorta di intermediario nel tentativo di stabilire una conversazione con lui, di dialogare con lui. Cerco un cinema che sia il film della nostra interiorità. 

 

In questa ricerca ha spesso chiamato al suo fianco attori non professionisti; cosa l’ha portata a questa scelta? 

Faccio cinema con la natura; naturali sono gli alberi, ed è necessario che anche le persone lo siano. La prima condizione è filmare qualcosa di vero. Dopo vengono l’artificio e l’invisibile, ma bisogna almeno partire da una natura e da degli esseri che siano verosimiglianti. Però lavoro anche con attori professionisti, anche loro sono esseri viventi… 

 

Immagino però che il lavoro preparatorio con artisti come Juliette Binoche, che ha diretto in Camille Claudel 1915 e Ma loute, sia impostato in modo molto diverso… 

Sì, perché sono degli strumenti sofisticati, quindi hanno una capacità di esecuzione molto più elaborata di un attore naturale. L’attore naturale suona su tre note; l’attore professionista su una ventina. Penso che il primo sia più profondo e penso che il professionista vada più in alto. Quando si ha bisogno della profondità e dell’altezza, si lavora con entrambi. 

 

Con attori non professionisti ha lavorato anche per la serie aperta da P'tit Quinquin, del 2014, e continuata con Coincoin et les Z’inhumains, che sarà proiettata nel corso del Festival. Cosa ha significato per lei confrontarsi con il linguaggio della serie televisiva? 

La differenza tra la televisione e il cinema è che la televisione è più piccola. Questo cambia tutto: il rapporto con lo spettatore non è lo stesso. Al cinema lui è piccolo, di fronte alla televisione è più grande. Bisogna quindi modificare i valori di ciò che si fa per mettersi all’altezza dello spettatore. Per esempio per la televisione non vale la pena fare dei piani ampi molto lunghi, perché non li si vede. Quindi il ritmo procede più rapido e per sequenze più piccole: è una forma di miniatura, come in pittura, dove si fanno sia miniature, sia gigantografie. A me piacciono entrambe, quindi amo fare sia televisione sia cinema, ma per ciascuno lavoro in modi diversi. 

 

Cosa l’ha portata a tornare sul personaggio di Coincoin dopo quattro anni? 

Le serie televisive danno la possibilità di esplorare dei personaggi di anno in anno. In P'tit Quinquin l’attore aveva 13 anni: a 13 anni si hanno sentimenti da bambino. Oggi ne ha 17, è un adolescente, ed era interessante riprendere un personaggio nella sua durata, nel suo turbamento, nei cambiamenti della vita stessa. 

 

In Coincoin et les Z'inhumains c’è una forte carica di comicità, assente nella prima parte della sua opera… 

Il comico è per me una scoperta piuttosto recente. Penso che, se si lavora sul drammatico e lo si approfondisce, alle radici del drammatico c’è il comico. Il comico è del drammatico che cade, ma rimanendo comunque drammatico. Richiede di prendere un rischio: si parla di suspence, e perché si abbia la sospensione (come abbiamo visto mercoledì con Laurel e Hardy in Liberty) è necessaria una meccanica – una meccanica che ci disegna così come siamo. Penso che il comico sia molto filosofico: dice cose molto profonde in modo molto facile. Non credo che si debba essere complicati o difficili; non amo il cinema oscuro, penso che si debba capire; e il comico è un buon modo d’esplorare le cose in modo sfocato.

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