News  ·  03 | 08 | 2018

L'ultimo dei giusti

Shoah - Histoire(s) du cinéma

Nove ore e mezza di documentario, quasi 600 minuti per 11 anni di lavoro. Shoah è l’opera monumentale sull’Olocausto per cui conosciamo Claude Lanzmann, filosofo, giornalista e regista, tra gli intellettuali più importanti del secolo scorso. È passato per la rivista Les Temps modernes, essendone un pilastro, ha intrecciato umanamente e professionalmente il suo lavoro e la sua analisi con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, di cui fu il compagno per sei anni. Ha cambiato il nostro modo di vedere la realtà del dopoguerra, raccontandoci l’inenarrabile e portando avanti uno studio serio, doloroso, potente sull’ebraismo e Israele, tuttora campi di gioco per le peggiori ideologie del nostro mondo.

Non dobbiamo dimenticare che Shoah è stato il centro, cronologico e di contenuto, di una trilogia che comprendeva anche Pourquoi Israël e Tsahal, e che Lanzmann ha dedicato la sua lunghissima vita alla ferita più profonda della coscienza collettiva dell’Occidente, senza fare sconti. Lo dimostra una delle sue ultime opere, il coraggioso e sconvolgente L’ultimo degli ingiusti, che attraverso la storia del rabbino di Vienna racconta la tragedia dei collaborazionisti, di chi è stato assolto dalla giustizia, forse persino dalla Storia, ma non da se stesso. Il lavoro allo stesso tempo monumentale, enciclopedico e analitico di Lanzmann lo pone, nel cinema, sullo stesso piano della collega filosofa Hannah Arendt, per averci mostrato la banalità e la quotidianità del male, ma anche la normalità della sua diffusione, anzi del suo contagio. È forse per questo, perché “una camera a gas non può essere rappresentata, non esistono superstiti che possano raccontarci cosa fosse e cosa si provasse là dentro”, che criticò aspramente Spielberg e Benigni per aver raccontato la Shoah con il cinema di finzione. Claude era questo: rigore, ricerca, abnegazione. Uno per cui nessuna impresa era impossibile. “Tranne sopravvivere alla morte, ti toglie per sempre la possibilità di essere grande”. L’unico sbaglio di Lanzmann: lui, lo è rimasto.

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