«Liberamente ispirato all’assolo di danza Mother (1921) di Isadora Duncan», si legge nei titoli di coda di Les Enfants d’Isadora, e davvero la regia dell’ex ballerino Damien Manivel si rivela integralmente tesa nel tentativo di trasporre questa danza in cinema. Diviso in tre atti, ciascuno con la sua protagonista, e unificato da date che collocano le esperienze di queste donne sotto uno stesso cielo, il film opera su un delicato equilibrio tra ripetizione e variazione, riproponendo i gesti ideati da Isadora Duncan attraverso tre corpi e tre esperienze di vita, in una dimostrazione di come l’arte, partendo da un singolo, si riverberi nel mondo e vi riecheggi.
Prima, una giovane danzatrice studia le notazioni e le parole di Duncan, che raccontano di come Mother sia nato dal suo struggimento per i figli morti. Poi, un’insegnante cerca di aiutare una ragazzina a far propria la coreografia. Infine, una spettatrice che assiste alla danza, tornata a casa, ne ripete i movimenti.
Con una scelta registica di estremo rigore e chiarezza, Manivel, che a Locarno aveva già presentato Un jeune poète ricevendo una menzione speciale nel Concorso Cineasti del presente 2014, si libera di tutto l’inessenziale per raccontare Mother con totale dedizione: sebbene percepiamo che al bordo dell’inquadratura si muova la vita quotidiana dei personaggi, allusa da piccole tracce (una catena di post-it, una telefonata, una fotografia), al centro della scena rimane solo l’assolo. Una messa a fuoco tanto ostinata che, quando sullo schermo appare qualcosa che danza non è, lo spettatore è subito portato a cercarvi tracce di una coreografia, che si tratti di un volo di corvi o di una corsa di bambini. Al contempo, attraverso il ballo Manivel indaga la meccanica di tutte le arti: come spiega l’insegnante alla sua allieva, non si può eseguire una danza senza prima averne interpretato i movimenti, così da far fluire in ogni gesto una corrente di senso.