News  ·  13 | 08 | 2020

Once Upon a Time in Brazil

Il portoghese Miguel Gomes e la sua nuova sfida cinematografica, ambientata nel Brasile del secolo scorso

L’emergenza covid19 l’ha costretta a dover rimandare la realizzazione di questo suo nuovo film che, ambientato nel 1897, richiede un lavoro di ricostruzione storica molto impegnativa. Quanto è stato difficile, per lei, interrompere la continuità di un lavoro così rigoroso e immaginifico?
Ad essere sinceri mi sono abituato a sospendere questa produzione anche prima della pandemia… È una produzione difficile, su molti livelli. Ma il virus è arrivato proprio quando pensavamo di avere tutto il necessario per andare avanti. Il piano, all’inizio dell’anno, era di andare in Brasile a giugno per poter girare lì entro la fine dell’anno. A giugno avremmo iniziato a costruire il set (il villaggio di Canudos durante la guerra), e immagino che i produttori siano felici di aver sospeso il film prima che iniziasse la costruzione. Sarebbe stato peggio interrompere la lavorazione dopo quel momento.

È un film, il suo, che risalendo agli scontri tra il giovane esercito brasiliano e la comunità resistente di Canudos, non può che interrogare l’epica e l’identità di un intero paese. È così?
Il libro di Euclides da Cunha che stiamo adattando parla proprio dell’identità del popolo brasiliano. Perciò credo che non si possa evitare, sarà nel film perché è un elemento importante del testo. Ma ciò che mi intriga del progetto va oltre la questione dell’identità nazionale. Ho letto il libro come un incredibile (e tragico) ritratto dell’umanità. Un ritratto che rimane assolutamente contemporaneo, pur essendo stato scritto più di cento anni fa. Il rapporto tra l’uomo e la natura, il rapporto tra gli uomini… Tutto ciò nel libro è molto specifico, molto “regionale”, ma con una sguardo più ampio (anch’esso presente nel testo) che lo rende molto universale.

Lei è già stato a Locarno nelle vesti di giurato. Come ha vissuto quell’esperienza e che ricordo ha del Locarno Film Festival.
Sono un grande fan del Locarno Film Festival. Onestamente, penso che sia un buon festival, e spero che rimanga tale (e sembra di sì!). È stato bello far parte delle giurie (ero stato nella giuria dei Pardi di domani alcuni anni prima dell’ultima volta). Ho così tanti bei ricordi… La visione di Ho camminato con uno zombie di Tourneur in Piazza Grande mentre diluviava, le lunghe bevute con Lisandro Alonso e Corneliu Porumboiu, la visione del capolavoro di Gus Van Sant, Gerry, in una sala grande con buona parte del pubblico che lasciò la proiezione in preda all’ira… Potrei scrivere un libro con i bei ricordi di Locarno. Ma non lo farò.

Nella sua filmografia, soprattutto quella più recente, c’è una carica affabulatoria che sembra godersi il percorso del racconto più che una sua ipotetica meta conclusiva. Come si può arrivare a questo senso di libertà?
Non è libertà, è l’indole.

È la domanda che facciamo a tutti: secondo lei come cambieranno il cinema e il fare cinema dopo l’esperienza della pandemia?
Questa è la domanda da un miliardo di dollari. Nessuno può rispondere senza rischiare di dire banalità. Quindi starò zitto.

 

Intervista a cura del Locarno Daily

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