News  ·  06 | 08 | 2020

Nadav Lapid, Locarno Art Event

Nadav Lapid ricorda la sua esperienza a Locarno e medita sul futuro del cinema

​​​​​​Per lei, il Festival di Locarno è stato anche il Festival dove ha presentato il suo primo lungometraggio Ha-shoter (Policeman, 2011), conquistando il Premio speciale della giuria. Che ricordo ha di quel film e di quell’esperienza?
Era la mia prima volta in gara a un festival internazionale di quelle dimensioni. Ho portato dei corti a Berlino e Cannes, ma l’esperienza di Locarno è stata inedita. Qui c’è un incrocio tra il festival grande e quello più piccolo. Il peso dell’industria non elimina quello del cinema. È un festival d’arte, non solo d’industria.

Quanto sono stati importanti i Festival nel suo percorso cinematografico internazionale?
Non sono la persona più indicata per analizzare i miei film, ma credo di appartenere a un certo modo di fare cinema, e oggi il mondo è meno aperto ad esso. Film come i miei possono essere marginalizzati, e a Locarno c’è una curiosità, spesso assente in altri festival, che ha aiutato i miei film e li ha fatti conoscere a livello internazionale. Quando si riceve un premio in Piazza Grande davanti a 8.000 persone, è un messaggio forte per il mondo del cinema.

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Il cinema, soprattutto quello più audace, è indebolito da anni, e la pandemia potrebbe rafforzare questa cosa. D’altro canto potrebbe costringerci a tornare alle origini, all’essenza delle cose. Forse è un bene.

Ora lei “torna” in qualità di giurato per una sezione che deve premiare i progetti interrotti per l’emergenza Covid 19 e che diventeranno film in futuro. Dovendo giudicare a opera non completata, c’è un senso di responsabilità maggiore?
Il nostro giudizio sarà incompleto, e immagino che molti dei progetti non premiati diventeranno capolavori, così come quelli premiati. Quando si giudica qualcosa bisogna essere umili, a maggior ragione quando si tratta di un lavoro incompleto. Questi progetti sono tutti affascinanti, molto diversi tra loro. Come regista è un grande piacere, perché di solito solo i creatori vedono i film in questa fase. È una fonte d’ispirazione, ed è molto interessante.

In Israele lei è molto stimato anche come scrittore. Quanto lo aiuta questa sua capacità a saper usare bene sia le parole che le immagini?
Sono ingredienti diversi e separati, è come vedere due elementi di una ricetta prima di avere il piatto pronto. Cerco di non sopravvalutare le parole, dato che il cinema è uno strumento audiovisivo.

È la domanda che facciamo a tutti: secondo lei come cambieranno il cinema e il fare cinema dopo l’esperienza della pandemia?
Sono molto pessimista. Temo che la pandemia stia incoraggiando e accentuando tendenze negative. Il cinema, soprattutto quello più audace, è indebolito da anni, e la pandemia potrebbe rafforzare questa cosa. D’altro canto potrebbe costringerci a tornare alle origini, all’essenza delle cose. Forse è un bene.   

Intervista a cura di Max Borg

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