News  ·  07 | 08 | 2020

Helena Wittmann: il mare dentro

Intervista con la cineasta tedesca che nel suo secondo lungometraggio torna a navigare nei mari del presente

©Sinje Hasheider

Con Human Flowers of Flesh, lei affronta un viaggio in un mare come il mediterraneo dove la storia incontra l’attualità. Qual à la molla che l’ha spinta a intraprendere questo progetto?
Penso che quello che stiamo affrontando ora sia stato nell’aria a lungo. Non è facile da definire. Se ci sono catene di causalità sono molto sfocate. Come per tutti i miei progetti, lo spunto iniziale sono le mie esperienze e osservazioni muovendomi nel mondo e facendo parte di esso. C’è sempre qualcosa che ci guida in un certo posto, a un certo incontro o una certa sensazione. E a volte tutto ciò porta a delle domande, o stimola l’immaginazione. Per me questi sono i punti di partenza per un possibile film. Ce ne sono stati molti per Human Flowers of the Flesh, e credo che sia cominciato cinque anni fa quando ho visitato Marsiglia per la prima volta e visto il centro ricreativo della Legione Straniera. Poi l’esperienza di andare in barca a vela e attraversare un oceano, leggere libri, seguire tracce, come farà Ida nel film. E il fatto che siamo permeabili, che in quanto umani non siamo entità chiuse. È una cosa che sento, e l’ambiguità sottintesa mi interessa.

Ancora una volta è il mare a farsi scenario e metafora di una condizione esistenziale. Da dove nasce questa predilezione?
Per me è molto di più. Cerco di incontrarlo in quanto tale, se ha senso dirlo, e quel “tale” è multiplo. Abbiamo uno spazio, un paesaggio, forse un organismo enorme e certamente una miriade di organismi al suo interno, c’è la materia. Il mio attaccamento al mare è dovuto a quello che io chiamerei la sua generosità. Ha il potere di dissolvere le certezze e mi offre continuamente nuove prospettive. Sento di poter imparare dal mare, dalle sue caratteristiche, dal suo comportamento. Il mare riesce a farmi cedere ad esso. Questo è molto fisico, per nulla metaforico. Ma a volte il banale è ciò che ha di più da offrire.

A Locarno partecipa al Concorso The Films after Tomorrow assieme a tanti altri film interrotti dall’emergenza covid19. Quanto è importante secondo lei che i Festival aiutino anche i film di domani?
Credo che la decisione di Locarno di creare la sezione The Films After Tomorrow sottolinei un nesso con i cineasti e i loro lavori nel senso dell’effettiva lavorazione, non di un prodotto. Lo apprezzo molto! I cineasti si portano appresso un film, o meglio, l’idea del film, per molto tempo. E poi all’improvviso tutto cambia, stai per girare, diventa molto concreto. E poi tutto cambia di nuovo, dopo le riprese, mentre affronti il materiale… Sono tutti stati diversi, della mente e del tempo. Personalmente, per me la selezione del nostro progetto è stata molto incoraggiante in un periodo dove tutto era incerto. Come se fosse un po’ più concreto, un piccolo passo in avanti dall’idea al film.

In un mondo dell’audiovisivo che cambia così radicalmente e in fretta, che spazio riesce a ritagliarsi il cinema d’autore?
Come con ogni altra cosa, penso che sia importante cercare di vedere nuove opzioni e possibilità. Amo il cinema, e ne ho bisogno, posso dirlo. Mi lega al mondo quanto una passeggiata in una città sconosciuta. Perciò i cinema vanno conservati, ma la situazione è cambiata da un po’ di tempo e non ha senso negarlo. Preferisco pensare a direzioni diverse piuttosto che a opposizioni, perché credo che i film possano vivere in habitat diversi contemporaneamente. Ma sento che la mia risposta non porterà da nessuna parte al momento, e vorrei parlarne con altri, per ascoltare e dare una possibilità a nuove idee.

È la domanda che facciamo a tutti: secondo lei come cambieranno il cinema e il fare cinema dopo l’esperienza della pandemia?
Questo davvero non lo so. Prima dovremo improvvisare, sperimentare – alla fine dipende tutto da noi. Non credo che ci sarà imposto – spetta a noi trovare il modo.

Intervista a cura di Max Borg

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