Intervista a Ariunaa Tserenpil

ZE Best

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“Abbiamo più di ottant’anni di storia”. A dirlo, tra fierezza e responsabilità, è chi da quella storia è attraversata con la forza della passione. Ariunaa Tserenpil può essere il nome e il cognome di una donna o il sinonimo di “cinema mongolo”. Produttrice con esperienza decennale, moglie e compagna di viaggio del regista Byamba Sakhya, coinvolta nell’Ulanbataar International Film Festival e nel disegno di una nuova legge per il cinema, Locarno ha conosciuto Ariunaa grazie a ZE, il progetto con cui ha trionfato a Open Doors, portandosi a casa i 40 mila franchi del Open Doors Grant per il sostegno alla produzione del film firmato da Lkhagvadulam  Purev-Ochir. «Il nostro primo film fu girato nel 1935 - racconta - il ché significa che abbiamo più di 80 anni di storia e esperienza alle spalle; chiaro, prima del 1990 era cinema di propaganda, ma gestione e infrastrutture erano d’alto profilo e si sono fatti ottimi lavori».

Poi cos’è successo?
«Paradossale, ma è arrivata la democrazia. Con lei è finito l’interesse a sostenere l’arte del cinema, le infrastrutture sono svanite e l’intero movimento è stato congelato per 10/15 anni. Si è girato, sì, ma non siamo più stati in grado di portare i nostri film in giro per il mondo».

Questa la fine del secolo scorso. Negli anni 2000 qualcosa è cambiato?
«Sì, c’è stata un’evoluzione, produttivamente si è iniziato a muovere di nuovo qualcosa e benché il nostro cinema indipendente sia un ecosistema davvero piccolo, abbiamo iniziato a ricostruire il nostro cinema, oltre che i cinema, le sale. Manca ancora una distribuzione omogenea, quella su cui si poteva contare prima del 1990, quando i film arrivavano ovunque. Oggi a fronte dei 40 schermi della capitale, nelle province i cinema non ci sono».

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Ora la gente sa che potrebbe esserci anche un altro cinema, il nostro. Che magari può non piacere o non essere capito, ma che ha tutto il diritto di esistere

Qual è lurgenza del cinema mongolo?
«Essere riconosciuto e sostenuto a livello governativo. A 30 anni dall’avvio del processo democratico questo è l’anno giusto, finalmente abbiamo un vero e proprio Ministero della cultura. Il Governo ha intravisto nel cinema una via per la diplomazia e nelle co-produzioni internazionali uno strumento per promuovere la Mongolia all’estero. Sta davvero comprendendo e promuovendo l’arte e ha messo nella propria agendo una legge a sostegno dell’industria cinematografica. Va bene tutto quanto, va bene “vendere” il Paese in tutto il mondo, ma la priorità numero uno dev’essere il sostegno all’industria locale, che ha fondi a dir poco limitati. Il Covid poi ha rallentato tutto, ma la discussione è iniziata. Se siamo tranquilli? No, vogliamo essere convinti di ogni singolo capitolo della legge: vogliamo quel sostegno, chiaro, ma quel sostegno non può e non deve corrispondere a una censura. E poi ci aspettiamo trasparenza: sono stati stanziati 3 milioni di dollari, che per il nostro movimento sono tantissimi; chiediamo che ci sia massima chiarezza nella distribuzione di questo denaro. Che sia a sostegno dell’intera filiera produttiva e con una particolare attenzione al sostegno delle competenze e dei giovani debuttanti».

La co-produzione è un rischio o unopportunità per il movimento locale?
«È importantissima proprio per far crescere l’industria locale, in un momento in cui manca di molte professioni, di specialisti, ad esempio nelle discipline legate al suono. Dobbiamo crescere, maturare, dunque ben vengano partnership per lo sviluppo di progetti, per la scrittura di sceneggiature o per la post-produzione. Se vogliamo fare film che viaggino abbiamo bisogno di co-produttori internazionali. Soldi? Formazione! Motivo per cui un progetto come Open Doors per noi è essenziale, una vera e propria fortuna incontrata sul nostro cammino. Per la nostra realtà, per le nostre dimensioni, è fondamentale avere qualcuno con cui parlare, confrontarti, a cui portare le difficoltà trovando consiglio. Locarno e Open Doors sono questo: qualcuno pronto ad ascoltarti, qualcuno che ha tempo per te, in un mondo spesso brutale e lapidario».

A proposito di co-produzioni, cosa ha significato nel 2013 per il movimento Remote Control, di suo marito, co-prodotto con Germania e Stati Uniti e trionfatore al Busan e Rotterdam?
«Ha portato buone notizie. Aldilà della storia raccontata, di una Mongolia contemporanea che è sì bei paesaggi ma anche grandi città vibranti, ha suggerito il potenziale e le prospettive dell’industria cinematografica locale. Non vorrei dirlo io, ma prima nei nostri cinema c’era solo il mainstream; ora la gente sa che potrebbe esserci anche un altro cinema, il nostro. Che magari può non piacere o non essere capito, ma che ha tutto il diritto di esistere e di girare il mondo raccontando un’altra storia. Ecco, Remote Control ha acceso la consapevolezza che esistono anche altre storie».

Remote Control, di Byamba Sakhya (2013) Remote Control, di Byamba Sakhya (2013)

Come immagina, o sogna, il cinema mongolo?
«Vibrante. Vario e vibrante, in modo che ognuno possa scegliere il suo, quello che vuole vedere, potendo decidere altro rispetto al mainstream hollywoodiano. Per questo credo così tanto nel sostegno di cui parlavamo prima: nell’essere indipendenti dobbiamo accettare il fatto che tutti hanno diritto di esistere, e raccontarsi».

Le nuove generazioni di cineasti arrivano dopo un lungo vuoto, un buco temporale cinematografico dovuto alla sospensione coincidente con lesordio della democrazia.
«Bisogna fidarsi di queste generazioni, accettando che siano diverse da noi. Non vederle in continuità, ma piuttosto forti del progresso tecnologico, che per loro è e sarà un vantaggio enorme: sono mongoli, ma possono parlare e rivolgersi globalmente. Quello che dovremmo riprendere nei loro confronti è l’educazione, la trasmissione di chi e cosa siamo stati. Raccontargli l’arte, la storia la letteratura, l’arte visiva. Fornirgli un grosso background culturale, raccontargli che nel 1921 indossavamo solo costumi tradizionali e 40 anni dopo spiccavamo con l’opera e il balletto. Che nel 1945 abbiamo perso la nostra scrittura adottando il cirillico, e che appena trent’anni fa abbiamo vissuto la rivoluzione democratica. Insomma, che la nostra è una storia di forti turbolenze, ma anche grande tradizione. Questi giovani, che oggi vivono la transizione digitale, hanno dimenticato che 80 anni fa eravamo soltanto nomadi a cavallo. Raccontiamoglielo, e poi lasciamoli raccontare».

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