Intervista a Lkhagvadulam Purev-Ochir

Genghis Cannes

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Se c’è una persona che difficilmente archivierebbe il 2020 come “anno orribile” questa è Lkhgvadulam Purev-Ochir. Anche per lei, regista e sceneggiatrice mongola di Lisbona, questo è stato un anno incredibile, ma per ragioni, e emozioni, decisamente opposte. Prima il successo a Locarno 2020, dove il progetto di cui è regista, ZE, ha vinto l’Open Doors Grant e il Premio Open Doors – Moulin d’Andé-CECI. Poi la notizia arrivata da Cannes, dove il suo Shiluus (Mountain Cat), è entrato a far parte della selezione ufficiale dei cortometraggi. «È stato qualcosa di enorme e assolutamente inaspettato - confessa lei - figuratevi io non ci avrei nemmeno provato; è stato il produttore a suggerire di candidarlo. Quando è arrivata la notizia da Cannes è stato scioccante, ho dovuto far leggere la mail ad altre due persone chiedendogli che mi confermassero quello che avevo letto. In Mongolia la popolazione giovane è numerosa e entusiasta, e la comunità dei cineasti vorrebbe confrontarsi con quella internazionale, ma le barriere sono tante e diverse. Per questo la notizia di Cannes è stata ulteriormente incredibile e stimolante».

In questo cammino Open Doors cosa è stato?
«I primi soldi (sorride riferendosi al Open Doors Grant vinto, ndr), ma in realtà molto di più. È stato il luogo e le persone che hanno accolto il mio progetto. Che lo hanno accolto sinceramente, spendendo del tempo per me e per il mio film, ascoltandomi e aiutandomi, consigliandomi. Ero lì in veste di produttrice, ma non sono mancati i consigli in termini di contenuto. Hanno letto il mio progetto, si sono prese e presi il tempo di studiarlo e poi di confrontarsi con me. Un qualcosa di enorme, se penso al lavoro che mi hanno aiutato a fare sia a livello di produzione che di script. Lì, a Locarno, ho trovato le mie due produttrici Ariunaa e Katia Khazak; Thibaut Bracq mi ha letteralmente spinto a incontrarle, mi ha detto “devi parlare con loro, ora!”, e mi ha organizzato un pranzo con Ariunaa. Locarno in genere è stata un’esperienza difficile da descrivere; Open Doors ha saputo costruire una vera e propria comunità di persone e regioni provenienti dall’Asia e per la Mongolia questo è importantissimo. Siamo geograficamente strani, non siamo Asia centrale, non siamo Sud-Est, non siamo Nord… Chiamarci in questa situazione e a questo confronto ci ha permesso di connetterci ad altri riferimenti cinematografici che non siano la Corea e l’America. Personalmente mi ha aperto gli occhi, dimostrandomi che anche dal Sud Est asiatico sono usciti ed escono film straordinari».

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Vorrei piccoli film che ci rappresentino oltre Gengis Khan. La nostra storia è molto più vasta di quanto viene percepito

Popolazione giovane e storia antichissima. Come si traduce questo rapporto nella realtà cinematografica?
«Siamo pieni di film storici, patriottici, ma la verità è che siamo ancora alla ricerca della nostra identità, e la storia è proprio il luogo in cui la stiamo cercando. Siamo progressisti, l’indice dell’uguaglianza di genere è alto, non abbiamo barriere religiose, viviamo in democrazia e abbiamo uno stile di vita occidentale, ma allo stesso tempo siamo in Asia e cinematograficamente, ad esempio, uno di più grandi riferimenti è la Corea. Siamo estremamente ibridi, per farsene un’idea basta andare a Ulan Bator e trovarsi in mezzo a segnalazioni in cinese, coreano e inglese».

E cosa può diventare tutto questo, al cinema?
«Piccoli film che ci rappresentino oltre Gengis Khan. Vorrei che i nostri film, a budget ridotto ed estremamente locali, colpissero il mercato globale spiegando chi eravamo e chi siamo. La nostra storia è molto più vasta di quanto viene percepito, ed è un territorio inesplorato».

Film piccoli?
«Sì, io credo che sia l’unico modo per farli funzionare. Di film giganti, per l’intrattenimento, ne sono già stati fatti tantissimi. Ora vorrei film estremamente focalizzati sulla cultura e su certi ambienti particolari; film difficilmente replicabili fuori da qui, che sappiano raccontare cosa sia la Mongolia qui e ora, adesso. E sono certa che sarebbero gli unici film in grado di funzionare a livello globale».

La crew di Mountain Cat, di Lkhgvadulam Purev-Ochir (2020) La crew di Mountain Cat, di Lkhgvadulam Purev-Ochir (2020)

Da tempo vivi a Lisbona. Cosa porteresti dellesperienza europea nel cinema mongolo?
«L’attenzione e la cura per la scrittura. Credo sia un momento del processo filmico troppo poco considerato nel nostro Paese, se non addirittura ignorato. Abbiamo scuole di cinema, ma non dipartimenti di sceneggiatura, ed è un vuoto che va colmato, assolutamente. Le scuole di cinema non mancano, ma a mio avviso dovrebbero puntare più sulla qualità dell’insegnamento che sulla quantità degli studenti. Una classe di regia dovrebbe avere al massimo 10 studenti, oggi invece ne escono 40 all’anno. Per andare a lavorare dove?».

Come immagini il futuro del cinema mongolo?
«Come un cacciatore di piccole grandi storie di vita quotidiana. Vorrei sentirmi rappresentata; tanti mongoli vivono vite completamente diverse da quelle che vengono ritratte dai cineasti stranieri che girano film sulla Mongolia. Vorrei raggiungere quei racconti, quelle rappresentazioni, e portarle sullo schermo».

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