News  ·  12 | 12 | 2020

Un triste epilogo

Il direttore artistico Giona A. Nazzaro ricorda Kim Ki-duk, protagonista a Locarno nel 2003 con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera.

Kim Ki-Duk, Locarno 2003

Per molto tempo il cinema sud-coreano è stato identificato con Kim Ki-duk. Fu lanciato da Venezia con The Island, il suo quarto film nel quale il regista metteva in luce la sua personalissima visione del mondo e dei rapporti di forza fra uomo e natura. Evidenziava un gusto per una crudeltà lirica, profonda, senza compromessi, segno di un mondo che non risponde ai desideri e alle aspettative dell’uomo. Una signora del pubblico veneziano reagì alla natura esplicita delle immagini di Kim svenendo. Una reazione che si potrebbe considerare una standing ovation, da un certo punto di vista.

Eppure, nonostante la sua fama sulfurea, Kim era un cineasta molto più complesso e ricercato di quanto le punte più crude del suo cinema potessero lasciare immaginare. Per cui quando Kim Ki-duk giunge a Locarno nel 2003 con Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera dopo due film estremamente diversi fra loro come Bad Guy e The Coast Guard, il pubblico scopre un autore in grado di modulare il suo sguardo con una straordinaria eleganza. Apice di un percorso autoriale unico, Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera è probabilmente il film nel quale il regista riesce a esprimere il suo mondo interiore riuscendo a trovare una felicità espressiva nella quale i demoni volgono in una morbidezza inedita. I film immediatamente successivi, pur ritornando a certe ruvidezze, evidenziano un’ulteriore complessificazione del suo cinema. La sammaritana e particolarmente Ferro 3 – La casa vuota sono il segno di un autore nel pieno possesso delle sue potenzialità espressive. La sua celeberrima prolificità lo conduce a realizzare un film dopo l’altro e la qualità fatalmente ne risente. L’arco, in questo senso, è il segno evidente di un meccanismo che si è bloccato. Poi c’è Dream, durante la cui lavorazione la protagonista Lee Na-young finge di impiccarsi e rischia di morire sul serio perché il meccanismo salvavita si blocca. L’incidente devasta Kim Ki-duk che scompare dalla circolazione.

Tre anni dopo, quasi irriconoscibile, appare a Cannes con Arirang, film il cui titolo è ispirato a un motivo popolare coreano, nel quale documenta la sua profonda depressione giocando in maniera spregiudicata e geniale con la sua immagine, muovendosi audacemente sulla linea che separa finzione e auto finzione. Dopo Arirang, riprende la sua attività con l’energia di sempre. Nel 2012 vince con Pietà il Leone d’oro a Venezia e dopo che Michael Mann gli consegna il premio, Kim, a mo’ di ringraziamento, intona Arirang.

Gli ultimi anni della sua vita sono stati segnati dalle ripetute accuse di molestie sessuali e violenze fisiche mosse nei suoi confronti. Ben tre le attrici che hanno accusato il regista di avere abusato della sua posizione per ottenere prestazioni sessuali. Addirittura un’accusa gravissima di stupro (nella quale è coinvolto anche il suo interprete preferito Cho Jae-hyun) e una multa di ben 5 milioni di won per aver aggredito fisicamente un’attrice sul set. Kim si ritira da tutte le sue posizioni pubbliche. L’eco di queste vicende tristissime getta una luce fosca sulla parabola creativa di un regista che ha realizzato alcuni dei film sud-coreani più apprezzati degli ultimi anni. Un epilogo decisamente triste.

Giona A. Nazzaro

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