News  ·  04 | 08 | 2022

Intervista a Sylvain George

Nuit obscure – Feuillets sauvages (Les brûlants, les obstinés) | Fuori concorso

Com’è arrivato a Melilla e quando ha capito che sarebbe diventato un palcoscenico fondamentale per il suo discorso politico? 

Ci sono andato per la prima volta nel 2006, quando stavo giusto per iniziare la mia carriera cinematografica. Volevo affrontare la questione delle politiche migratorie vigenti in Europa, e quel posto mi interessava molto perché la collocazione geografica di Melilla, come quella Ceuta, in Marocco, fa sì che siano i confini meridionali dell’area Schengen e le uniche frontiere eurafricane; in entrambi i casi è un’enclave spagnola dove si testano le politiche pubbliche europee sulla migrazione, così come i meccanismi per applicarle. Per motivi economici, non potei andare oltre con il mio progetto all’epoca, e così iniziai il mio lavoro sulle politiche migratorie analizzando la città di Calais, ma avevo sempre in mente questa parte dell’idea.  

Il film introduce il tema dei minori, migranti senza dimora. Che cosa vede in queste giovani generazioni e che rapporto ha costruito con loro durante la lavorazione? 

I giovani adulti e i minori marocchini, che transitano per Melilla, vengono per lo più dagli strati più poveri della loro società, sono trascurati dalla stessa, spesso crescono in ambienti famigliari e culturali devastati. Andarsene è un’ossessione, la strada diventa la risposta per tutte le persone stufe della vita. E chi può dare loro torto? Al contrario, la loro reazione è estremamente sana, a mio avviso, perché vogliono darsi un futuro. Agiscono quindi come “rivelatori” e “sentinelle” che aprono la possibilità di altri mondi: lo mostrano “sabotando” e “bruciando” le frontiere, in modo visibile, invisibile, simbolico; queste persone giovani sono eccezioni, figure carnevalesche che effettuano stravolgimenti dialettici. È forse l’unico privilegio che hanno, il percepire le potenzialità offerte dall’assenza del privilegio: la capacità di scalare un muro, di far balbettare il linguaggio ufficiale, di inventare nuovi idiomi.  

Il film è solo il primo passo di un viaggio più lungo: in che modo la responsabilità di raccontare la storia di questa gioventù ha cambiato il suo approccio al fare cinema? 

Non credo che incontrare queste persone abbia cambiato qualcosa in quel senso, perché credo di aver sempre cercato di riconciliare le questioni etiche e politiche. Però è vero che giorno dopo giorno, frequentare bambini di strada e giovani adulti che vivono nelle peggiori condizioni mi ha profondamente costretto, volendo assolutamente fare un film all’altezza della loro posta in gioco politica e poetica, a tradurre non solo un certo contenuto di verità, ma anche di bellezza.  

Daniela Persico 

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