News  ·  10 | 08 | 2022

Intervista a Caterina Mona

Semret | Piazza Grande

©Ella Mona

Quanto è importante presentare al Locarno Film Festival un film che racconta la condizione degli immigrati in Svizzera? 

Poter presentare il film a un festival internazionale come Locarno, per di più in Piazza Grande, può generare un interesse mediatico molto alto. Semret non è il classico film sulla migrazione, pur mettendo al centro persone immigrate in Svizzera. Il cuore del film è una storia universale, di una relazione tra madre e figlia. È sempre importante ricordarsi che non tutti hanno una vita facile anche nel nostro Paese, dove molte cose funzionano comunque veramente bene. 

Che tipo di ricerche ha fatto prima di scrivere la sceneggiatura? 

In un primo tempo ho letto soprattutto articoli, rapporti dell'ONU, di Amnesty International, di Human Rights Watch e altro. Ho trovato poi varie testimonianze online che mi sono state molto utili per costruire la back-story di Semret. Mi sono documentata in modo approfondito sul PTSD (stress post-traumatico) e altri temi psicologici che influiscono sul comportamento della protagonista, come ad esempio le relazioni simbiotiche o il borderline. In questo caso ho usufruito in particolar modo della collaborazione con una psicologa specializzata in traumatologia. Devo specificare che le ricerche e lo sviluppo della sceneggiatura sono avanzate in modo abbastanza parallelo, non ho mai smesso di documentarmi mentre scrivevo. Sin dall'inizio ho lavorato a stretto contatto con una donna emigrata in Svizzera 15 anni fa con una storia simile a quella di Semret, che oggi lavora nel campo sociale e mediatico dell’immigrazione

Quale è stata per lei e gli attori la scena più impegnativa da girare a livello emotivo? 

C'erano varie scene difficili a livello psicologico, ma la più impegnativa è stata sicuramente quella in cui Semret racconta la propria storia alla figlia. È una scena divisa in cinque tempi nei quali Semret attraversa vari stadi di emozioni estremamente diverse. È un alto e basso di quasi cinque minuti con un monologo lungo e molto emozionale. 

Come ha lavorato con Lula Mebrahtu per sviluppare il personaggio di Semret? 

Abbiamo collaborato con Barbara Fischer, una bravissima acting coach di Zurigo che ha lavorato tanti anni a Londra. La conosco da vari suoi workshop a cui ho partecipato. Un pomeriggio, insieme a Lula abbiamo discusso il personaggio e creato il suo linguaggio del corpo, i movimenti, il modo di parlare di Semret. Lula, che nella vita reale è l'opposto di Semret, ha poi continuato ad esercitarsi per più di un mese e da Londra ha continuato il lavoro con Barbara via Zoom. 

C’è un messaggio che vorrebbe il pubblico facesse proprio vedendo il film a Locarno? 

Non credo molto nei film che cercano di trasmettere un messaggio. Quel che mi sembra importante è che la spettatrice, lo spettatore percorrano un tragitto insieme alle figure, che possano vivere delle emozioni legandosi emotivamente ai personaggi. Credo molto nell’umanità e vorrei trasmettere ottimismo e speranza durante questi tempi piuttosto bui. 

Semret ha un soggetto piuttosto diverso rispetto al suo primo film, Persi (2015): una nuova direzione che ha influito nel suo stile di regia? 

Il contesto e la storia di Semret sono sì diversi da Persi, ma il tema rimane lo stesso. Entrambi i film - e anche il prossimo progetto che sto sviluppando con la mia produttrice Michela Pini - trattano di come determinati traumi vengano vissuti ed eventualmente superati. Questo è il tema principale che mi interessa e che continuerò a esplorare in forme diverse. 

Intervista di Adriano Ercolani

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