Di Savina Petkova
Il regista messicano-belga César Díaz esplora l’ambivalenza della Storia e le esperienze personali che si celano dietro al suo secondo lungometraggio, Mexico 86, proiettato stasera in Piazza Grande.
Il protagonista del film d’esordio di César Díaz Our Mothers (Nuestras Madres, 2019) era un archeologo forense in cerca della verità sul padre, scomparso durante la guerra civile in Guatemala negli anni Ottanta. Oggi, con Mexico 86, il regista, nato in Guatemala, ritorna sullo stesso periodo storico di un Paese dilaniato dalla guerra. In questo suo secondo lungometraggio, Maria (Bérénice Béjo), una militante della resistenza divenuta madre recentemente, prende la dura decisione di lasciare il figlio Marco (Matheo Labbé) in Guatemala quando è costretta a fuggire in Messico. Una decina di anni dopo, il bambino, sperando in un futuro migliore, decide di rivedere la madre. Accompagnato dalla nonna e con un passaporto falso, la incontra in Messico, dove lei ha continuato a lottare sotto copertura per la giustizia e l’attivismo rivoluzionario.
Nelle opere toccanti di Díaz madri e padri sono più che meri riflessi di una patria travagliata, il Guatemala; le relazioni fra genitori e figli simbolizzano infatti la difficoltà di conciliare il proprio passato al presente, in cui la dimensione personale, politica e sociale s’intersecano. A prima vista Mexico 86 è un dramma storico dal ritmo serrato: Maria sarà in grado di mantenere la sua copertura in Messico? Lei e Marco potranno creare quel legame genitore-figlio rimasto irrealizzato per una decina d’anni? Durante la nostra conversazione con Díaz abbiamo esplorato gli aspetti meno evidenti del film, come la cura con cui il regista ha creato i suoi personaggi e la sua relazione ambivalente con il passato.
Savina Petkova: Dopo aver visto i tuoi due film, uno dopo l’altro, ho come avuto l’impressione che Mexico 86 esistesse nella tua mente prima di Our Mothers, il tuo film d’esordio. È così?
César Díaz: In realtà sì! Our Mothers è nato come un progetto di fine studi, nel 2012. Come puoi immaginare, ci è voluto tempo per svilupparlo e finanziarlo. Alla fine abbiamo ottenuto dei soldi dal Belgio, ma comunque ci è voluto un po’ [per produrlo]. Nel frattempo, ho cominciato a scrivere un film intitolato Call Me Mary: una storia su una donna guatemalteca emigrata a Bruxelles che ha dovuto lasciare il figlio in patria. Dieci anni dopo lui va in Belgio a cercarla. Quello è sempre stato il fulcro di Mexico 86: due persone che, anche se madre e figlio, non si conoscono e devono imparare a convivere. In quel periodo però tutti i riscontri che ricevevo si riferivano al film come ad una storia di migrazione e non era ciò che volevo creare. Quando uno dei miei produttori mi ha chiesto da dove venisse l’idea di Call Me Mary gli ho raccontato di come mia madre avesse lasciato il Guatemala per il Messico, e di come io fossi cresciuto con mia nonna. Mi ha detto: “Perché non scrivi quella storia?”
SP: Sembra un invito a rendere la narrazione più personale. Come ti approcci a questi elementi quando si tratta di creare i tuoi film?
CD: È che, vedi, ho bisogno di un tema, di un personaggio al quale legarmi profondamente. Quando insegno, consiglio sempre ai miei studenti di scegliere un tema o un soggetto che sta loro a cuore, perché ci dovranno convivere per cinque, 10 anni, o più. Se non lo ami davvero lo abbandonerai. Per me, a dirla tutta, è un modo per conoscere meglio i personaggi in quanto persone e capire cosa provano in certe situazioni. Penso che sia in questo senso che la mia esperienza personale mi aiuti a fare film. La mia identità mista guatemalteca-messicana-belga inoltre mi è stata di grande aiuto per finanziare il tipo di film che voglio fare [grazie a co-produzioni e finanziamenti europei]. Viviamo un momento in cui il nazionalismo sta crescendo e le nazionalità si stanno allontanando, ma dobbiamo ricordare che il cinema è una lingua universale.
La mia sfida dal punto di vista narrativo era di evitare che il bambino diventasse un fardello.
SP: Una cosa che mi ha colpito di questo film è il fatto che Maria e Marco non sono davvero madre e figlio, nel senso che loro non si rispecchiano in quei ruoli: lei è una militante alla ricerca della verità e lui un bambino di 10 anni. Dato che non sono legati da una relazione famigliare, come hai costruito una narrazione nella quale si avvicinano e si allontanano ripetutamente?
CD: La mia sfida dal punto di vista narrativo era di evitare che il bambino diventasse un fardello. Se mai lo fosse diventato lei avrebbe rinunciato ad instaurare un rapporto. Eppure, dovevano condividere quel sentimento indistinto di appartenere l’uno all’altra, senza sapere esattamente perché. Da un punto di vista narrativo, credo che questa sia una storia di formazione per Marco, ma per Maria è ovviamente diverso. La sua vita è guidata da un obbiettivo [l’attivismo rivoluzionario] e lungo la strada incontra molti ostacoli; Marco è uno di questi. È questo il motivo per cui la crescita di Marco è così toccante per me: arriva a capire le ragioni che hanno spinto la madre a lasciarlo. Prendere una decisione non perché non ami qualcuno, ma perché sai che non hanno spazio per te nelle loro vite è una cosa bellissima.
SP: Ed incoraggiante! Sempre più spesso nei film storici i bambini sono o una responsabilità o un sentimento astratto – “i bambini sono il futuro” – ma Mexico 86 va controcorrente. Come hai ideato la storia di Marco, un giovane ragazzo unico e al contempo qualcuno con cui ci si può identificare?
CD: Inizialmente, tutti quelli che hanno letto il copione hanno commentato il fatto che la storia non fosse narrata dal punto di vista di Marco. Penso che nell’immaginario collettivo ci possiamo identificare con quel tipo di personaggio-bambino facilmente. Basti pensare a I 400 colpi (Les Quatre Cents Coups, 1959), o il film argentino Infancia Clandestina (Clandestine Childhood) del 2011; siamo abituati a questo tipo di cose come spettatori. Per Mexico 86 sapevo che non avrebbe funzionato, perché il pubblico avrebbe finito con il giudicare Maria; sarebbe sembrata una “cattiva madre”, qualsiasi cosa questo voglia dire, e avrebbe oscurato le complessità della sua causa e del suo sacrificio. Quando segui il suo punto di vista ne comprendi la posta in gioco, quanto sia importante la sua causa, e quanto profondamente lei creda nel trasformare la società.
Abbiamo bisogno di persone come il personaggio di Maria, se stiamo seduti in silenzio e poi andiamo ad una protesta di tanto in tanto non cambierà nulla.
SP: Il film è dedicato a tua madre: il personaggio di Maria è ispirato al suo attivismo durante la guerra civile in Guatemala o a conversazioni avute con lei?
CD: Sì, chiedevo a mia madre e ai suoi compagni: “Perché?”. È una lotta così difficile e dolorosa, soprattutto quando si insinua nel tuo contesto famigliare; sei continuamente costretto a prendere decisioni difficili. Ma loro mi rispondevano: “Perché volevamo creare un mondo diverso per te e la tua generazione”. Penso che ci sia qualcosa di nobile in questo, perché non pensi a te stesso e sei cosciente del fatto che una trasformazione sociale e politica richiede tempo. Potresti non vivere abbastanza a lungo per vederla con i tuoi occhi, ma puoi comunque affidare un mondo migliore a coloro che verranno dopo di te. Abbiamo bisogno di persone come il personaggio di Maria, se stiamo seduti in silenzio e poi andiamo ad una protesta di tanto in tanto non cambierà nulla.
SP: Come ha funzionato invece il casting? Hai preso in considerazione questi aspetti quando hai scelto Bérénice Béjo per interpretare Maria e Matheo Labbé per il ruolo di Marco?
CD: Bérénice mi è sempre piaciuta in tutto quello che ha fatto, ma all’inizio stavo cercando un’attrice guatemalteca. Nessuna delle persone che ha fatto il provino era in grado di restituire quell’intensità di cui avevamo bisogno e di interpretare il personaggio di Maria. Poi ho visto un film argentino in cui Bérénice Béjo parlava spagnolo e ho realizzato in quel momento che è argentina. È scappata dalla dittatura. È a quel punto, penso, che ho cominciato a immaginare il personaggio con le sue fattezze, ma non ero certo che quell’idea sarebbe andata in porto. Parlare con i produttori è stato stressante, perché in passato fu nominata per un Oscar, ma erano incoraggianti e volevano almeno provarci.
SP: Immagino che vi siate incontrati di persona e che forse le vostre storie di emigrazione vi abbiano aiutati a stringere un legame.
CD: Esatto! Ci siamo incontrati a Parigi dopo che aveva letto il copione. C’è subito stata una forte intesa e non abbiamo neanche nominato il film! Abbiamo parlato delle nostre esperienze per ore ed ore, da soli, e poi alla fine ho detto qualcosa come: “Ma ti piacerebbe davvero fare questo film?”. Al che lei ha risposto: “Certamente!”. Un sogno diventato realtà.
La cinematografa [Virginie Surdej] ed io non dovevamo neanche parlare perché avevamo lavorato molte volte insieme prima di allora e abbiamo gli stessi riferimenti.
SP: E Matheo? Questo era il suo primo ruolo.
CD: Sì, per trovare il Marco giusto ci è voluto molto tempo. All’inizio tenevamo dei provini per bambini senza copioni o battute. Incontravamo i ragazzini, ci parlavamo, poi presentavamo loro delle situazioni per vedere come reagivano. Osservavamo anche il loro linguaggio del corpo, quanto riuscissero a concentrarsi e che cosa funzionasse per loro. Quello che ha distinto Matheo – e penso che sia stato in un certo modo determinante – è il fatto che ha il diabete da quando era molto piccolo. È ancora un bambino però allo stesso tempo, a causa dei suoi problemi di salute, è molto maturo. Per il personaggio di Marco avevamo bisogno di qualcuno che potesse crescere molto in fretta e Matheo, nella sua vita, ha dovuto farlo. Per quanto riguarda il lavoro sul set abbiamo concordato con i suoi genitori che sarebbe stato meglio non dargli il copione intero. Abbiamo lavorato quindi scena per scena: ogni giorno riceveva una nuova scena per il giorno successivo e un poco alla volta ha scoperto il film nella sua interezza.
SP: Hai girato il film in Guatemala e in Messico. Le due esperienze, da un punto di vista personale e dell’industria, sono state molto diverse?
CD: Girare in Guatemala era un po’ come essere a casa, perché avevamo la stessa equipe che per Our Mothers, le stesse persone. Era però diverso perché ci conoscevamo meglio e potevamo esplorare più in profondità certe scene, o lavorare più velocemente. È stata un’esperienza magnifica. Per esempio, la cinematografa [Virginie Surdej] ed io non dovevamo neanche parlare perché avevamo lavorato molte volte insieme prima di allora e abbiamo gli stessi riferimenti. Questa volta eravamo lì insieme, camminando per strada potevo mostrarle i luoghi dove era successo quanto descritto nel copione, inclusi i massacri. È a quel punto che le cose si sono fatte vere per entrambi. Condividere quell’esperienza è stato molto speciale per tutti coloro che erano lì.
SP: Il Messico è stato diverso, suppongo.
CD: Come sai, il Messico ha un’industria cinematografica gigantesca. Un giorno eravamo 50 persone sul set in Guatemala, il giorno dopo 125 in Messico. Sinceramente per me è stato uno shock, vedere tutta quella gente correre in giro…è un modo molto diverso di lavorare. Non sto giudicando! Dico solo che è difficile passare da una squadra molto piccola, quasi una famiglia, a più di 100 persone da un giorno all’altro. Mi dicevano: “Sì signor Díaz, No signor Díaz” e rispondevo sempre: “Il mio nome è César, ok? Smettiamola con queste sciocchezze” [ride]. Ho certamente avuto bisogno di un momento per abituarmi. È lì che ho potuto imparare a girare scene d’azione, cosa che prima non avevo mai fatto. Per fortuna il mio primo assistente alla regia [Pierre Abadie] aveva girato molte scene d’azione e sapeva come lavorare su quel tipo di set. Era come avere un coach [ride] e ho davvero amato ogni lezione.
The version of Mexico City that I remember from the ’80s doesn't exist anymore.
SP: La storia di Mexico 86 comincia nel 1976 in Guatemala, che è anche il periodo di cui tratta Our Mothers, anche se quel film è ambientato ai giorni d’oggi. In altre parole, il passato traumatico che fa da sfondo al tuo primo film diventa il tempo presente di quello nuovo.
CD: Beh, quello è stato il periodo più buio della storia recente del Guatemala. Onestamente è anche una mia ossessione e paura, ero terrorizzato durante quel periodo. Ricordo gli attacchi, la polizia e come il dittatore appariva in tv così spesso da essere diventato quasi un nostro amico. Ricordo anche come ho lasciato il Paese. Quindi per me ritornare è stato un modo per confrontarmi con il passato. Per quanto fosse oscuro e difficile, c’era pur sempre speranza, perché la generazione dei miei genitori, come ho detto, credeva davvero di poter cambiare la Storia e trasformare la loro società.
SP: Come è stato ritornare nel Paese nel quale sei cresciuto, il Messico?
CD: È stato davvero come tornare ai miei ricordi. Sono cresciuto in Messico ed essere lì mi ha certamente aiutato a ricordare come era all’epoca. Ma devi tenere a mente che la versione di Città del Messico degli anni Ottanta che ricordo non esiste più. In quegli anni era certo una città incredibile, ma era pur sempre…non so come spiegarlo, era umana, o almeno facilitava i legami tra le persone. Per esempio, quando andavo a scuola a 10 anni attraversavo tutta la città, da nord a sud, con i mezzi pubblici. Ma oggi nessuno lascerebbe mai farlo a un bambino di 10 anni e il tragitto è di due ore e mezza. Città del Messico è diventata gigantesca e fuori controllo, o almeno al di fuori del controllo dei suoi abitanti…
SP: Potresti invece parlarci della decisione di ritornare su quel periodo storico?
CD: Onestamente penso che questa sia l’ultima volta che ritornerò su quel periodo. È stato molto importante per me farlo perché penso che sia un modo efficace di confrontarsi con la storia recente dell’America Latina. I film storici oggi sembrano dirci: “Sai cosa? Noi c’eravamo 40, 50 anni fa. Non dovremmo essere tornati indietro!” Giusto la settimana scorsa ho visto alcune immagini di persone che venivano arrestate, in Argentina, e mi hanno ricordato un passato non così lontano. Se fossero state scattate negli anni Ottanta quelle immagini sarebbero state uguali. È terrificante, ma dobbiamo ricordare. La ragione per cui facciamo film è ricordare alle persone che questo può succedere di nuovo e non possiamo lasciare che ciò accada, perché abbiamo imparato dal passato – o almeno così spero.