News  ·  08 | 08 | 2020

Cyril Schäublin, la lotta contro il tempo

Lo sguardo su una fabbrica orologiera di ieri per capire il mondo di oggi

Per lei Locarno rappresenta il Festival che ha segnato un vero inizio, non solo per la proiezione del suo film d’esordio Dene wos guet geit (2017), ma anche per la sua partecipazione alla Locarno Filmmakers Academy del 2013. Quanto è stata importante quell’esperienza?
La Filmmakers Academy è stata un’esperienza divertente e piena d’ispirazione, ho incontrato molte persone interessanti con cui sono tuttora in contatto. Ricordo che uno degli ospiti, Pedro Costa, ci disse che tutte le società di vendita sono squali, una delle mie citazioni preferite in assoluto. Oppure Abel Ferrara che ci raccontava di quando vide per la prima volta un film di Pasolini in sala a New York e dopo la proiezione ci fu una tempesta sopra la città, secondo lui a causa del film. Da allora mi chiedo sempre come sarà il tempo dopo aver visto un film in sala, e quali siano i legami tra il meteo e il cinema. Quindi direi che l’esperienza dell’Academy ha avuto un qualche tipo d’impatto su di me.

Ora, con Unruhe, lei affronta attraverso lo sguardo su una fabbrica di orologi d’inizio secolo una riflessione sul tempo. È una storia del passato che serve anche per raccontare il presente?
È impossibile fare un film storico che non sia anche in qualche modo una riflessione sul presente. L’epoca in cui è ambientato il film può essere vista come cruciale per il nostro presente. È l’inizio degli stati nazionali e l’architettura del capitalismo industriale, che hanno definito come intendiamo e organizziamo il lavoro, il tempo e il denaro fino a oggi.

Vista l’ambientazione a inizio secolo, il film prevede una fedele ricostruzione storica e numerose comparse. Dopo tutta la fase di preparazione, quanto brusca è stata la frenata che ha dovuto compiere a causa dell’emergenza covid19 durante la lavorazione?
È stato un po’ più difficile del previsto. Soprattutto trovare il momento giusto per sospendere la sceneggiatura fino all’anno prossimo quando ricomincerà la pre-produzione, il che è una sfida a causa dell’ambientazione. 

Lei fa parte di una nuova generazione di cineasti svizzeri che però ha avuto esperienze in tante parti del mondo. Quanto è importante per il cinema svizzero mantenere forti legami con realtà esterne?
​​​​​​​Penso che tutti in questo mondo, a prescindere dal paese d’origine, debbano mantenere legami al di fuori della propria lingua e dei propri sistemi di comprensione. “Proletari di tutti il mondo, unitevi!” È una frase vecchia, ma vera.

È la domanda che facciamo a tutti: secondo lei come cambieranno il cinema e il fare cinema dopo l’esperienza della pandemia?
​​​​​​​Penso che prima della pandemia il confine tra fisico e digitale, per quanto riguarda gli aspetti della produzione, fosse molto sottile. Dopo la pandemia bisognerà fare una distinzione chiara tra le due cose.

Intervista a cura di Max Borg

 

 

 

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