Le ombre nere, le luci saltuarie a tagliare l’orizzonte all’interno un mondo che resta in un perenne chiaroscuro, assieme ai tanti silenzi che sembrano muoversi restando fermi. È sempre una dimensione spettrale a scolpire il cuore della cinematografia di Pedro Costa e in qualche modo a rendere ogni suo film una sorta di eredità del precedente, segno di un lavoro di ricerca che trasforma la coerenza in novità. Un rapporto che per certi è anche un percorso a più tappe, come testimonia il feeling che Pedro Costa conserva con il Locarno Film festival. Anche perché prima di conquistare il Pardo d’oro lo scorso anno con Vitalina Varela, nel 2014 c’era già stata un’altra scintilla potente nel 2014 con la proiezione di Cavalo Dinheiro (Horse Money) che si aggiudicò il Pardo alla migliore regia. Là dove la carica ascetica del suo sguardo si era unito a una riflessione politica, mantenendo fede a quella sua poetica rigorosa con cui riesce a raccontare l'anima dei singoli e i fenomeni collettivi, il personale e il politico, come nessun altro. E da questo punto di vista Cavalo Dinheiro, riportandoci dentro una Rivoluzione dei Garofani delusa e disillusa ci restituisce uno smarrimento che non è solo fisico ma che arriva a farsi metafora di un intero paese. Costa non rinuncia al suo stile asciutto, mai accondiscendente, vicino al documentario. L'eredità di Bresson sembra poggiarsi sulle sue spalle con un'ispirazione forte, eticamente ed esteticamente, che gli consente di accarezzare la Grande Storia e le piccole storie con grazia e lucidità. Partendo dal piccolo mondo antico di un quartiere di Lisbona, il suo occhio abbraccia emarginati e derelitti, ingiustizie e promesse mai mantenute, riuscendo a evitare ogni calligrafia superflua per arrivare a quello stile, il suo, a suo modo classico e moderno.