Non una casa in Libia ma la mia casa in Libia, anche se Martina Melilli a Tripoli non ha mai messo piede, e i suoi nonni hanno abbandonato quella casa nel 1970, ben prima che lei nascesse. Quell’anno si chiude l’esperienza italiana in Africa, con la presa del potere di Gheddafi e il rimpatrio di migliaia di italiani rimasti nel paese ben oltre la fine della funesta avventura del colonialismo fascista, in un capitolo semi-dimenticato del Novecento. Altri 40 anni dopo, la rivoluzione del 2011 finisce per trasformare la Libia in uno dei paesi più instabili dello scenario mediterraneo, luogo di prigionia e partenza per i migranti diretti in Europa. È il momento di interrogare quelle memorie familiari di un luogo paradisiaco, per ridire la parola Libia cercando significati diversi da quelli ripetuti dalla ritualità della cronaca. Ma i ricordi svaniscono, recarsi in Libia è impossibile, e così i limiti con cui Melilli deve fare inevitabilmente i conti diventano risorse, il dialogo con un altro sguardo sulla sponda opposta del Mediterraneo inverte la prospettiva e scardina il discorso dominante sulle migrazioni. Dettagli e immagini mancanti fanno spazio a nuovi strumenti di comunicazione, note vocali e messaggi, nel tentativo di ricomporre la sua storia come in un collage, un autoritratto riflesso attraverso un secolo e il mare.