Quarant’anni di carriera, settanta film, registi come Scola, Steno, Avati o Mazzacurati, giusto per citarne alcuni. Come ci si sente ad aver percorso trasversalmente quasi mezzo secolo di cinema italiano?
Vecchio. Iniziai con il cabaret al Derby di Milano. Il proprietario era mio zio, ne ero affascinato. Lavorai alle luci, poi direttore di scena, ma sempre a bordo palco. Ovviamente frequentavo chi lo calcava e di colpo mi ci ritrovai sopra. In un attimo il cinema mi mangiò. Cominciai più o meno nel ’78 e tra il 1980 e il 1982 scattò uno sfruttamento esagerato del personaggio. Sordi e Tognazzi, Monicelli e Risi sono stati la mia formazione; poi, anche se giovane, sono riuscito nella generazione successiva ai Pozzetto, così mi sono ritrovato a conoscerli tutti. Sì, ho attraversato trasversalmente il cinema italiano, ma soprattutto ho creato rapporti. Sono le persone con cui ho passato la mia vita. Tra queste c’è anche il pubblico e pure Verdone o Troisi, anche se magari con loro non ho mai lavorato. È la contemporaneità delle vite: viviamo lo stesso periodo storico, il rapporto è inevitabile, anche senza incrociarsi. Penso a Scola; con lui ho fatto un film, ma era un punto di riferimento già prima, perché di lui avevo visto tutto. Abbiamo vissuto lo stesso tempo, la cosa più preziosa che ci sia.
Con Salvatores siamo a otto film girati insieme, un rapporto speciale.
A settembre faremo il nono. Tutto è iniziato in un periodo storico particolare, abbiamo cominciato e non ci siamo più fermati. A Gabriele sono molto legato, pur essendo molto diversi abbiamo vissuto in contemporaneità. E poi mia moglie è diventata la sua compagna…
Come convivono in lei comico e drammatico?
Comico si nasce, drammatico si può diventare. Se non sai far ridere non farai mai ridere, non esiste la scuola dell’umorismo. Con il lavoro puoi affinarlo, ma è un talento. Ed è molto più faticoso; nei ruoli drammatici in un certo senso mi riposo.
Che ricordo ha di Carlo Vanzina, con cui è nato, ad esempio, Eccezzziunale… veramente?
Su di lui e sul suo cinema si leggono e sentono generalizzazioni inutili. Il tempo tende ad accomunare cose che non c’entrano tra loro. Eccezzziunale o Attila non sono film in cui si vedono donne nude sbirciate da una serratura, ma vengono ricordati al fianco di quei film. Di Vanzina si additano i “cinepanettoni”, che non sono altro che film comici che escono a Natale, quando c’è da tenere allegra la gente, ma Vanzina è stato anche, ad esempio, Sapore di mare. Vanzina è moltissimo, e mediamente di ottimo livello. Detto questo un film comico deve far ridere, dunque se fa ridere è un film riuscito. Poi c’è la commedia all’italiana, che è tutt’altro. È riflettere, e talvolta piangere, ridendo. È il mestiere del giullare, compito e responsabilità enorme.
Diego Abatantuono è un giullare?
Certo. Al Verdi di Milano cominciai con un personaggio, “il terruncello”, un leghista antesignano. Era tutto nell’aria, io semplicemente lo colsi e lo portai all’esasperazione; raccontai la storia contemporanea, una vita normale, esasperandole. Come i giullari.
Un nemico che ti vuole bene, il film di Denis Rabaglia con cui è in Piazza Grande, ha precisamente il gusto dell’esasperazione.
La storia è potenzialmente vera, ma al limite. È svegliarsi di buonumore e essere centrato da un vaso appena usciti di casa. Presente quando si dice “la sfiga”? Ecco, è quello. È una storia che può succedere a tutti; la osservi e per quanto sia esattamente al limite, per quanto ti dica “possibile che succedano tutte a lui?”, ci credi. È la vita. D’altronde il cinema deve raccontare storie uniche, altrimenti è una palla. In questo caso, a corredo, ci sono un po' di poesia e stupore soft. Spero stupisca anche il pubblico di Piazza Grande.
Lì ci sono ottomila persone da stupire.
Io in Piazza Grande sono convinto di esserci già stato, ma non ricordo quando. Forse è semplicemente un sogno che speravo si realizzasse.
A questo punto può passare al prossimo.
Continuare a divertirmi. Se non mi fossi divertito così tanto avrei cambiato lavoro. Io, fondamentalmente, sono un pigro.