A pochi giorni dal lancio della call per la realizzazione dell’immagine di Locarno76, la terza dopo quelle vinte da Luciano Baragiola nel 2021 e Vito Manolo Roma nel 2022, a raccontare cosa voglia dire disegnare il Locarno Film Festival è chi lo ha fatto per 15 anni: da quell’invito del 2006 al manifesto mai uscito del 2020. I due suoi manifesti preferiti. «Disegnare l’immagine del Locarno Film Festival è sempre più difficile - ammette Michele Jannuzzi dello studio Jannuzzi & Smith, oggi membro della giuria che valuta i progetti in arrivo da tutto il mondo - Da quando abbiamo deciso di farlo attraverso un concorso riceviamo centinaia di leopardi gialloneri, perché d’altronde quello è il Locarno Film Festival. Noi però cerchiamo, e aspettiamo, il leopardo che ancora non esiste».
Dal leopardo, dal giallo e dal nero non si scappa?
«Puoi portarlo all’estremo, ma quello è. Penso alla nostra serie del 2015 e 2016, in cui attraverso la tecnologia UV trasformammo le persone in leopardi; in quel caso non c’era l’animale in sé, ma il giallo, il nero e le sue iconiche macchie sì. Ci allontanammo dal pardo, restando lì».
Nessuna frustrazione nell’essere ancorati a questi tre elementi?
«All’inizio la frustrazione della ripetizione può esistere, ma per chi fa questo mestiere poi si accende la curiosità di trovare quel qualcosa che non è mai stato fatto prima. Di scoprire un piatto nuovo».
Come approcciare una sfida simile?
«Dovendo fare il manifesto di Locarno sai già qual è la risposta, ma non hai ancora l’immagine. Accogliendo proposte e visioni da tutto il mondo è più facile arrivare a quel “oltre” che cerchiamo. A quel qualcosa che ti fa dire “questo è ancora un leopardo, ma non l’avevo mai visto prima”. Quello di Vito Manolo Roma, l’anno scorso, ci disse esattamente questo: si poteva fare qualcosa di diverso, come un fumetto; che magari noi non avremmo mai fatto, ma che funzionava e soprattutto si sposava bene con la nuova dimensione della comunicazione. Non era un manifesto “plakativ”, che inchioda lo sguardo, ma era ottimo per essere liquido, declinabile, contagioso. Il manifesto, nell’era dei social e di una comunicazione multipla, non è più centrale, non è più il Re, la Regina e la Principessa, bensì partecipa a un racconto, lo alimenta. Quello dell’anno scorso andava esattamente in questa direzione».
Come iniziò la collaborazione con il Festival?
«Da un invito. All’epoca il Festival organizzava nel corso dell’anno alcuni eventi nelle ambasciate in giro per il mondo. Noi, vivendo e lavorando qui, fummo contattati per realizzare l’invito dell’evento a Londra. Io però da tempo avevo in testa l’immagine per un manifesto, e quella era l’occasione giusta per proporla. Quindi, invece di realizzare un classico cartoncino, realizzai un gigantesco A2 piegato in otto parti, che era allo stesso tempo invito e manifesto. Al ricevimento, settimane dopo, l’allora direttrice operativa Doris Longoni mi disse “vogliamo lavorare con te”».