News  ·  07 | 06 | 2018

Jeannette - L'enfance de Jeanne d'Arc (2017)

C’est l’apocalypse, Carpentier!

A parlare è un commissario con gli occhi strabuzzati, dai mille tic che bloccano il viso in altrettante smorfie, dalla parlata quasi incomprensibile tenuta su un tono di voce sempre più alto del dovuto.  Parodia del detective, il commissario Van der Weyden appare come il condensato di alcune delle caratteristiche che rendono unico e irresistibile il cinema di Bruno Dumont. Il commissario che porta il nome del pittore fiammingo, noto per i suoi ritratti dove le pose delle mani creano un dialogo con la sobria espressività dei volti, è un mix indiscernibile di ottusità e stupore. Nel racconto è colui che dovrebbe dare un senso al mistero del mondo, facendo luce sui fatti inspiegabili che coinvolgono quelle terre piatte nel nord della Francia scelte dal regista come set di quasi tutti i suoi film; senonché Van der Weyden è il primo a non capire nulla di ciò che accade, è il primo a perdersi di fronte al caos e all’incoerenza della realtà.

Il contesto è quello di una serie di televisiva, giunta alla sua seconda stagione. Solo che qui, a differenza dell’atemporalità che vige sul piccolo schermo, i personaggi crescono e dunque possono addirittura cambiare soprannome: Quinquin diventa dunque Coincoin. Rimane la visione di un mondo che ha perso il suo significato e che si offre allo spettatore nella sua più agghiacciante incoerenza.  E, come spesso accade di fronte all’ignoto, l’uomo reagisce con una risata. Ridiamo di qualcosa che è, a guardarla bene, come uno specchio deformante del nostro stare al mondo.

Dietro un’apparente semplicità di messa in scena e di racconto, dietro una rapidità di esecuzione che è propria della scrittura televisiva, Dumont realizza il suo film più concettuale quello che si pone l’ambizione di racchiudere il mondo e le sue spinte più diverse in un fazzoletto di terra. Cela questo progetto in sequenze dai contrasti abissali, che mettono insieme l’alto e il basso, la maschera e il corpo, il carnevale e la giustizia. Questo modo di procedere era già evidente nel suo primo lungometraggio, La vie de Jésus. Lì, in una forma di rappresentazione più realistica e con una scrittura cinematografica, che ancora lasciava spazio alla transizione da una scena all’altra, il regista inseriva al centro del racconto un giovane non diverso da quelli dei suoi film successivi. Freddy vive lo stesso disagio di Quinquin, dei giovani in Flandres, del ragazzo senza nome di Hors Satan. Messo a confronto con qualcosa che non sa spiegare – la sua compagna decide di avvicinarsi a uno straniero – Freddy – metà carnefice metà vittima -  diventa il Gesù paradossale che si affaccia all’alba del XXI secolo.

Ce n’est pas le film qui est moral, c’est le spectateur qui va l’être.

Incontrato nel 1997, Bruno Dumont aveva le idee ben chiare su quale fosse il ruolo del cinema e i suoi centri d’interesse. “Per me questa storia, questi personaggi, questi luoghi, questi interni sono uno strumento per entrare dentro la condizione umana. Dunque non è naturalismo, è un’impressione di verità che affonda molto rapidamente”. Ciò che è rimasto costante nel suo fare cinema è la volontà di indagare l’uomo, nelle sue zone d’ombra, siano esse relazionali o esistenziali. Il tema del prossimo come qualcosa che fa ostacolo, il male come presenza ineluttabile, il sesso come fondo oscuro dell’uomo sono solo alcune delle sfide accolte dai suoi film.  A differenza di tanto cinema borghese, che nasce nelle città e prende piede nei salotti, Dumont guarda direttamente le grandi questioni che assillano l’uomo. Di fronte a una realtà che è sempre più opaca, Dumont propone storie forti senza offrire la soluzione facile di una fine sia essa positiva o negativa. Storie aperte perché aperti sono i problemi che affrontano. I suoi personaggi sembrano trascinati da forze superiori, non pensano, raramente agiscono. Il loro essere in balia della realtà, del destino, dei rapporti di forza che regolano la società è sbattuto in faccia allo spettatore a cui spetta il compito di reagire.

A dispetto delle tonalità fredde dominanti, colori delle terre del Nord da cui il regista proviene e dove ha ambientato la quasi totalità dei suoi racconti, i film di Bruno Dumont sono materiale incandescente. Infiammabile come le reazioni che suscitano. Il cinema è per lui un arnese con cui scardinare le giunture del pensiero tradizionale, quello che divide ad esempio l’umanità in buoni e cattivi. La sua visione del mondo prevede che arcaico e moderno convivano senza problemi. Il pensiero corre a Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, dove il testo vertiginoso di Peguy si traduce in canzone, accompagnata da balli e corredata dalla musica di Igorrr. La figura senza di tempo di Giovanna d’Arco s’inserisce perfettamente in quella galleria di personaggi che film dopo film il regista ha predisposto. È un mondo contadino a sfilare davanti alla macchina da presa – viene in mente come la figura della parata ritorni secondo modi diversi nei suoi film. La parata, come la maschera, è il momento in cui la comunità si mette in scena e si esibisce di fronte ai propri simili.

Se i personaggi dei suoi film hanno volti che sembrano maschere, tanto esuberano i canoni imposti dal cinema, anche le loro parole subiscono un procedimento simile. Siamo lontani tanto dall’eloquenza del cinema parigino (“bordel-ll”, ripete spesso il commissario) quanto dall’argot delle banlieue. Il linguaggio dei film di Dumont esaspera la cadenza, l’accento, la deformazione dialettale. Corpo e parola: sono gli assi cartesiani che identificano i personaggi e li rendono irriducibili rispetto al mondo di celluloide. Dumont è tra i pochi a domandarsi quale è lo statuto delle immagini oggi e a proporre una visione conseguente. Se le immagini oggi sono disincarnate e possono viaggiare su qualunque supporto quelle pensate da Dumont hanno invece il sapore sgradevole della terra (o della busa, per riferirsi all’ultimo suo lavoro). Non sono analogiche nel senso tradizionale del termine, non sono un calco della realtà, ma portano inscritte le stigmate del reale.