Carisma, capacità oratoria, un modo di stare in scena ammaliante. Kate Gilmore, vice Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, non combatte, vive per ciò che sostiene. E quando ti parla, ti ipnotizza, capace di farti capire le battaglie che vale la pena affrontare. E vincere.
71 edizioni Locarno, 70 per la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ma entrambi sono invecchiati bene.
Non è un caso che siano coetanei: Il motivo per cui siamo qua è per festeggiare il fatto che siamo nati nello stesso periodo, dallo stesso impulso. Locarno è la città della pace, furono proprio i trattati di Locarno, nel 1925 ad assicurare una pace più giusta dopo la Prima Guerra Mondiale e impedire che ne scoppiasse un’altra. Fu la violazione di quei trattati a dare il via al declino che portò alla Seconda Guerra Mondiale. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo prende lo spirito di Locarno e lo esprime a parole. Ora è accettata da tutti i paesi del mondo, in teoria se non in pratica. Siamo nati tutti uguali, a livello di dignità e diritti. Tutti, senza eccezione.
Quanto sono importanti i festival come zone franche in cui tutti abbiano il diritto di esprimersi?
L’arte è molto potente. E un festival come questo, nel permettere anche a chi vede i propri diritti repressi in patria di mostrare qui la propria opera, è un atto di resistenza. Per questo dobbiamo alzarci in piedi tutti insieme in Piazza Grande come gesto di solidarietà, per dire che nessun governo ha il diritto di sopprimere la libertà di espressione, di riunirsi, di credere in ciò che si vuole. E l’articolo 27 della dichiarazione ribadisce il diritto universale ai festival, alla cultura, che non può e non deve essere soppresso.
Che rapporto ha lei col cinema? E quali film hanno fatto di più per i diritti umani?
Non sono un’esperta. In quanto anglofona sono condizionata da Hollywood e penso a Dirty Dancing e la sua lezione sull’ingiustizia e la pericolosità degli aborti illegali. Penso a Grease, che ci insegna la tossicità della mascolinità tradizionale, che preferisce rinchiudere gli uomini in angolini di arroganza e dominazione patriarcale. Non dimentichiamo ovviamente la potenza di Schindler’s List e Hotel Rwanda, che ci raccontano di come la resistenza migliore ai crimini peggiori contro l’umanità sia quella delle persone comuni. Penso a una storia: si dice che nel 2007 ci fosse un monaco in Birmania, che vide un film basato su spezzoni di attivisti che si opponevano al dittatore serbo Milosevic. Si chiamava La caduta di un dittatore e circolò in Birmania sottotitolato. Lui vide il potere della resistenza, e con dei colleghi diede inizio alla rivoluzione zafferano che, con tutti i suoi difetti, portò all’instaurazione della democrazia in Birmania e alla liberazione di Aung San Suu Kyi. Questo potere di invitarci a relazionarci in modo diverso con l’esperienza umana è l’essenza dell’arte.
Stasera salirà sul palco con Spike Lee. Cosa pensa del suo cinema?
Avere anche solo il privilegio di riflettere sul cinema di Spike Lee mi fa sentire molto umile. Il suo dono al mondo, ben al di là degli Stati Uniti, è stato ricordarci innanzitutto che ci sono molte storie che noi non ascoltiamo. È un cineasta a tutto tondo, capisce il potere della rappresentanza. Usa la comicità e la narrazione per provocarci, per costringerci a relazionarci in modo diverso con noi stessi e con l’altro, sia bianchi che neri. È un messaggio universale. Credo che il suo lavoro più recente ci dica che siamo tutti implicati. Non c’è un confine o un muro abbastanza forte, non ci sono misure di sicurezza sufficienti per separare i miei diritti da quelli degli altri.
Quali sono le sfide più importanti per chi combatte qui e oggi per i diritti umani?
Sono tre. Come sottolinea anche Spike Lee, la polarizzazione di idee fasciste nella conversazione pubblica. Ognuno di noi ha il dovere di opporre resistenza a ciò. Susan Sontag diceva che una delle forme principali di pornografia è osservare la sofferenza umana e non fare nulla. Non dobbiamo permettere al nostro sguardo di renderci passivi. Poi c'è la sfida dei diritti umani nell’epoca digitale. Come facciamo a rispettare contemporaneamente la libertà di espressione e i concetti di dignità e uguaglianza? Come manteniamo l’interconnettività sui social media, che facilitano l’odio senza conseguenze? Infine, l’ultima, è che oggi ci sono molti più giovani rispetto a qualunque altro periodo della Storia umana, ma esistono soprattutto in zone di conflitto, di povertà, di disperazione. Sono i giovani, per esempio, ad essere coinvolti maggiormente nella migrazione e ciò sta portando a un invecchiamento dell’Europa, che vive nella paura e, se permetti, nell’egoismo. L’età media in Germania è 47 anni, mentre nel Niger è 15. Questo squilibrio fa sì che la ricchezza sia vecchia, sta invecchiando e ha paura; la povertà è giovane, disperata, senza speranza. A meno che non si faccia qualcosa per risolvere questo squilibrio, i diritti umani non saranno mai pienamente realizzati.
Lei ha iniziato a Melbourne in un Centro contro la Violenza sulle Donne. Cosa pensa del movimento #Metoo?
Penso che sia accostabile a quello che fa Spike Lee. Si tratta di un punto di vista, di una posizione, di storie. Si tratta di capire e criticare l’esperienza: chi stai rappresentando? Quale posizione? È chiaro che le donne non sono trattate bene dal cinema. C’è stata una ricerca recente di McKinsey, che non è un baluardo progressista, da cui è emerso che le donne sono in minoranza anche nelle scene di massa. Quando il cinema si fa complice nel rappresentare rapporti di potere che sono tossici per tutti noi, esso deve assumersi le proprie responsabilità. Ed è quello che sta dicendo #MeToo. Se vieni escluso in base alla razza, al sesso, alla disabilità, all’età, ciò è inaccettabile e contrario allo scopo dell’arte. L’arte è nata con figure come quella del buffone di corte, il cui compito era opporsi al re, al potere. Quella è la vera essenza dell’arte.