Il nome posticcio Victor Ganz del personaggio principale di Tegnap (Hier, interpretato dalla star romena Vlad Ivanov) evoca quello di un ben più celebre Victor cinematografico, come lui finito in Marocco dall’Europa: il Victor Laszlo di Casablanca. Il Maghreb ritratto da Bálint Kenyeres, al suo primo lungometraggio dopo tre corti presentati a Venezia, Sundance e Cannes, non è però più un crocevia di spie, semmai di nuovi affaristi globali e di interessi incentrati su appalti e corruzione. Anche la rappresentazione di quei luoghi non è quella del cinema classico di Curtiz, ma oppone al noir la luce accecante del deserto, ispirata piuttosto alla visione letteraria e lisergica che del Marocco e delle sue città, su tutte Tangeri, hanno dato Paul Bowles e i suoi adepti beat. In una sorta di movimento a spirale che conduce inevitabilmente allo smarrimento e all’ossessione, tipico dei film desertici – da Greed di Stroheim a Professione: reporter di Antonioni, da Come sono buoni i bianchi di Ferreri a Gerry di Van Sant –, Ganz sbarca sul suolo africano al sicuro nell’abitacolo del suo SUV, ma passo dopo passo finisce per vagare in spazi sempre più ampi, dai vicoli della città ai paesaggi lunari dell’Atlante marocchino, come in un labirinto popolato di dettagli e presenze sempre più incongruenti, che si schiude di fronte a lui fino a scomparire e inghiottirlo. Kenyeres parte da una citazione di Moby Dick, a proposito di ossessioni, e finisce per immergere Victor in una dimensione alterata fuori dal tempo e in una geografia sempre più astratta, facendo di Tegnap un mesmerico irresistibile invito a inseguire i miraggi.