News  ·  05 | 08 | 2018

"Una storia che nasce da lontano"

Intervista a Costanza Quatriglio, regista di "Sembra mio figlio" - Fuori concorso

 Con la vicenda di Ismail, un uomo che si mette in viaggio alla ricerca della madre dopo essere scappato da bambino dall’Afghanistan, torni a un film di finzione. Il tutto però nasce da una storia vera… 

La storia nasce da lontano: nel 2005 giravo il mio film documentario Il mondo addosso, dove raccontavo le storie di bambini migranti, arrivati da soli in Italia dopo essere fuggiti dalle loro terre di nascita. In quell’occasione avevo conosciuto Jan ed ero stata colpita dalla sua avventura: era scappato dall’Afghanistan perché appartenente alla minoranza hazara che veniva perseguitata dai talebani. Ma non solo: quel ragazzo, nonostante fosse ancora minorenne e vivesse in una casa famiglia, trascorreva da volontario le notti nelle stazioni di Roma per aiutare altri bambini afghani che si trovavano in condizioni simili. E tutto questo lo faceva con grande spirito di altruismo e trattenendo dentro di sé un desiderio intimo e inconfessabile: la speranza di incontrare qualcuno che gli potesse dare qualche informazione su sua madre. Qualche anno dopo l’uscita de Il mondo addosso quel miracolo è avvenuto e quando Jan me l’ha raccontato, mi si è aperto un mondo. 

 

Nato da una profonda fiducia, il film infatti restituisce questa temperatura intima fin dalle prime scene…. 

Il carattere dell’intimità è connaturato alla storia. Il film sonda quelle soglie dove ci sono le speranze e i dolori più indicibili, quelli di un uomo che va alla ricerca della propria madre. Per la scrittura era necessario mettersi in posizione d’ascolto. L’ascolto, nel perdurare del lavoro di costruzione del film, è diventato quella cura e quell’attenzione ad ogni singolo dettaglio e sussurro dell’anima del protagonista. Il bisogno di raccontarsi e quello di essere riconosciuti dalla madre hanno la stessa forza. 

 

Un bisogno che resta “incentrato sul protagonista, mentre gli altri personaggi rimangono quasi sempre fuoricampo… 

Ho voluto mantenere un fondale evocativo dentro al quale si muove un personaggio che è alla ricerca di qualcosa che continuamente sfugge. Gli altri ci sono e sono tanti, ma all’inizio del film restano fuoricampo, proprio perché ho voluto stabilire un rapporto di prossimità con il protagonista. Nel corso del film, poi, il fuoricampo entra in campo. Quando Ismail decide di intraprendere il suo viaggio, si ritroverà in un mondo dalle proporzioni invertite perché diventa un piccolo punto in mezzo alla moltitudine, alla massa anonima. In un certo senso il suo corpo si rimpicciolisce, proprio mentre la nostra conoscenza si allarga fino alla comprensione della portata gigantesca della storia. 

 

Come ti sei trovata a dirigere un attore che parla nella lingua madre hazara?  

La sceneggiatura era in italiano e il lavoro fatto con l’attore principale Basir Ahang non è stato di semplice traduzione. Per lui è stato un vero processo di appropriazione di luci e ombre del personaggio e per me è stato un modo per entrare nei segreti della lingua attraverso l’esattezza delle sfumature di ogni singola parola. Persiano, indoeuropeo, radici antiche e profonde per una lingua che, man mano che realizzavo il film, aveva davvero la risonanza della lingua madre dell’umanità.