Lo hanno chiamato genio e beautiful loser, ma la corta parabola di Blaze Foley sfugge a ogni catalogazione. Di lui restano delle liriche che ancora oggi fanno arricciare la pelle, i suoi “bagliori”, di cui Sybil Rosen, sua compagna, è stata testimone. E c’è la sua fine, insensata ma in linea con qualcuno che non ha mai avuto paura delle sue azioni. Sebbene il racconto assecondi la biografia, Ethan Hawke è troppo consapevole della storia della musica folk e delle sue trappole per immergersi in un biopic. Non siamo dalle parti di Walk the Line. La vita di Blaze è scomposta in una serie di frammenti che si rimandano come i pezzi di uno specchio infranto.
Il ritratto del cantante si sviluppa a partire da un concerto, che è come un flusso di coscienza, e da una trasmissione radiofonica, dove il nome di Blaze entra per caso per non uscirne più. Il concerto rimanda al rapporto tra arte e vita – a come la seconda nutra sempre la prima – e racconta come una canzone, quando è davvero tale, arrivi a cristallizzare in un grumo di suoni una sensazione sospesa nell’aria. La seconda opera invece la critica di quella tendenza propria dello show business a creare star dimenticandosi che la vita non è uno scintillio costante, ma impasta poesia con sporcizia. A una scrittura che raccorda tempi diversi, Hawke aggiunge un’abilità notevole nella direzione attori. Se Blaze è una vertigine capace di sedurre, molto del merito va ai suoi interpreti. Da Charlie Sexton ad Alia Shawkat, passando per uno straordinario Kris Kristofferson nei panni del padre del protagonista. Senza dimenticare Ben Dickey, vero musicista e interprete d’eccezione. Con il suo fisico massiccio, il passo claudicante e il sorriso bonario, Ben è perfetto. Un orso capace di scatti d’ira ma che non appena apre bocca irresistibilmente invita all’abbraccio.