Non ha paura il regista João Nicolau di passare dai primi turbamenti amorosi di due amiche adolescenti (John From, 2015) a un altro momento di transizione, molto meno accattivante per il cinema, quello di chi piano piano si allontana dal mondo del lavoro avvicinandosi al pensionamento. Proprio a quel punto della vita si trova Luís Rovisco, tecnico di impianti di sorveglianza, che ormai non li sa più tenere a bada: costretto ad avere a che fare con un’archeologia tecnologica, non più al passo con i tempi, mentre i proprietari delle grandi strutture alberghiere stanno pensando di rivolgersi altrove. Ma a Luís Rovisco piace viaggiare, da un albergo all’altro, e soprattutto piace cantare, liberando la sua voce lungo scenari di cartapesta, simbolo di un mondo che è pura parvenza e di cui non bisogna preoccuparsi troppo.
Tenuto su un registro di sottile ironia e bonaria inquietudine, Technoboss vive della relazione tra il mondo esterno (così geometrico e prevedibile) e la fisicità goffa di Rovisco, che come un nuovo Monsieur Hulot attraversa i vicoli ciechi di una società pronta a riconoscere solo l’efficienza. Forse per questo il film prende gradualmente le mosse di un’operetta buffa e malinconica, che mescola gruppi metal e canti a cappella, in un crescendo di surrealismo che conduce al più dolce dei finali. Un film pieno d’amore capace di affrontare la fine di un’epoca con il sorriso sulle labbra.