Carlos Saura è stato un compagno. Di viaggio e in senso strettamente politico. Nella Spagna di Franco la sua era la voce che ci diceva dello stato del paese. Un cineasta straordinario, uno sguardo infallibile. E che ha sempre rifiutato di piegarsi ai dettami dell'ideologia e del contenutismo. Sapeva modulare surrealismo e osservazione politica. Invettiva polemica e stupore. Il suo è stato un arco creativo impressionante per qualità, diversità e coerenza espressiva. Ha sempre rinunciato alla tentazione di ripetersi. Dagli anni Sessanta in avanti ha esplorato le diverse modalità per affrontare la dittatura, lavorandola ai fianchi, ma senza mai diluire la messa in stato di accusa. Tanti i capolavori. La caza, (1966), Peppermint Frappé, (1967), Ana y los lobos (1973), Cría cuervos (1976), per limitarci a citare i più noti. All'alba degli anni Ottanta si reinventa nel segno del Flamenco e del musical, mettendo a tacere che lo davano spento artisticamente. Bodas de sangre, ispirato a Lorca, Carmen e El amor brujo i titoli chiave di questo straordinario arco creativo degli anni Ottanta. Nel decennio successivo mette a segno zampate come ¡Ay, Carmela!, El sur, ¡Dispara! e il nerissimo Taxi, analisi spietata della persistenza del fascismo. Saura è stato un regista chiave del cinema spagnolo, europeo e mondiale. A Locarno era di casa. Gli dobbiamo tantissimo. E il suo sguardo ci mancherà.
Giona A. Nazzaro