News  ·  07 | 08 | 2023

Camping du Lac

A volte la deviazione è più importante della strada intrapresa.

Simone Bozzelli è il futuro che sogniamo per il cinema italiano. E così Patagonia, il suo lungometraggio d’esordio, uno dei debutti italiani più selvaggi, deflagranti e senza compromessi da molti anni a questa parte. Classe 1994, Bozzelli ha già alle spalle collaborazioni importanti – fra cui il videoclip-culto I Wanna Be Your Slave per i Måneskin – e un pugno di cortometraggi impressionanti per coerenza poetica e dirompenza d’impatto – Amateur (2019) e J’ador (2020), presentati alla Settimana della Critica di Venezia, e Giochi (2021), in concorso fra i Pardi di domani a Locarno74. Con Patagonia il giovane regista alza il tiro e colpisce nel segno firmando un film che rigetta ogni briciolo di perbenismo borghese e assieme a questo le facili consolazioni, le stupide morali, gli inutili pregiudizi. Questa è la storia di Yuri, interpretato con sguardo sperduto e obliquo da Andrea Fuorto, ventenne soffocato dal nulla della vita in un piccolo paese della provincia abruzzese che decide di seguire Agostino, pagliaccio egocentrico e incantatore, che brilla del carisma sottilmente oscuro di Augusto Mario Russi, alla sua prima prova sullo schermo. Una fuga che è una promessa d’indipendenza e l’inizio di una vita nomade attraverso il centro Italia, a bordo di un camper che finisce parcheggiato in un campo rave popolato da una giovane umanità fluida e confusa nel loop infinito della musica techno. Ma Patagonia è soprattutto la storia di un rapporto che si fa via via più ambiguo e claustrofobico, un gioco di potere e interdipendenza, di strisciante sopraffazione. Di premi e punizioni. Di libertà e controllo. Dominato e dominatore. Schiavo e padrone. Una giostra pulsante che ruota su stessa. Scegliere, magari perdere. Diventare grandi. Un film che espande l’universo psicologico e sentimentale già scandagliato nei lavori brevi dell’autore, ma che non rinuncia mai a mettersi continuamente a rischio, scena dopo scena, abbattendo le reti di sicurezza con il passo saldo di un’onestà di sguardo incurante del giudizio, lontana dalla prevedibilità della buona creanza, eppure mai vuotamente provocatoria, neppure nei suoi passaggi più forti. Patagonia è un film sporco, che sa di fango, di terra e polvere sugli abiti, di sudore sulla pelle. Un film pensato, vissuto e realizzato dall’interno delle situazioni che racconta, attraverso percorsi emotivi feroci e troppo raramente esplorati, forse per timore oppure per pudicizia. È la messa in scena, la vivisezione a cuore vivo e aperto di dinamiche umane, troppo umane, che se possono apparire disturbanti è solo per palpitante vicinanza alla vita.  

 

Daniela Persico