News  ·  10 | 08 | 2023

"Rossosperanza": un film sovversivo sull'Italia patriarcale

Abbiamo incontrato la regista Annarita Zambrano per parlare dell'origine del film e della sua relazione con la società di oggi.

© Matias Indjic

Da dove nasce Rossosperanza? 

È un percorso personale che racconta la storia di persone dell’epoca, nel 1990, che mi circondavano. È anche un’allegoria. La mia idea era fare un film contro il potere costituito identificandolo con la famiglia che rappresenta lo Stato, mentre la sovversione è rappresentata dai figli, che sono nati dal potere e nello stesso tempo gli si rivoltano contro. 

 

Come in Dopo la guerra, un altro suo film che declina il concetto di devianza, di ribellione alla realtà costituita. 

Parlo di un momento storico particolare, il 1990, che rimanda moltissimo al presente. Due anni dopo in Italia ci sarà una vera caduta degli dèi, prima di Mani pulite. Si arriva dopo 40 anni di Democrazia Cristiana, di status e morale accettata. Per esempio, nel film c’è un produttore televisivo che stava con delle minorenni ed è ritenuto normalissimo. Un’Italia molto maschilista, patriarcale, cieca di fronte ai giovani. È caduto il Muro di Berlino l’anno prima e non ne è minimamente arrivata la portata. Chi ha conquistato il potere se lo vuole tenere. Dopo la Seconda guerra mondiale c’è stata la ricostruzione di una piccola e grande borghesia che ha lavorato tantissimo per far ripartire il paese dopo il boom economico. Poi le persone che hanno ricostruito l’Italia ci si sono sedute sopra. Una classe politica vecchia, per forza di cose contraria a un vento di modernità legato al sesso, all’aborto, con la presenza ingombrante della Chiesa cattolica. Una cappa che pesava e che sta ricominciando a pesare in questo momento nella stessa maniera. 

 

In una satira violenta contro il perbenismo di classe, c’è spazio per la tenerezza dei ragazzi. 

L’epoca non era certo inclusiva. Nelle scuole private ma anche pubbliche di Roma, in cui sono cresciuta, i miei amici omosessuali erano “anormali”. Ho sentito tante volte intorno a me usare l’espressione “bisogna curarlo”. All’epoca era normale dirlo. La borghesia come concetto ingloba tutto, per autoconservarsi è disposta a sacrificare un elemento di sé deviante, pur di mantenere la maggioranza. È questo che succedeva, e torna d’attualità oggi. Il mondo che vedevo era distorto dal mio essere “anormale”, anche se mi sembravano essere gli altri anormali. Ovviamente sono una spettatrice, come capita a chi fa i film. I registi sono spesso testimoni. Per rendere questa realtà distorta ho girato con delle ottiche a 2.35 anamorfiche che deformano le immagini per poi comprimerle a 1.85. L’idea era che ci fosse una realtà per me più grande che veniva compressa. Ho cercato di renderlo cinematograficamente. 

 

È un film che suona un campanello d’allarme sulla realtà di oggi. 

C’è in atto in Italia, e non solo, un’onda reazionaria profonda e gravissima. Toccherà per primi i giovani. Per me il cinema serve a scuotere in qualunque modo le coscienze, anche a far innervosire, non importa. Abbiamo vissuto momenti drammatici in questi ultimi anni e non mi andava di fare una cosa pesante. Abbiamo mangiato talmente tanto realismo in questi ultimi anni, che avevo voglia di un racconto diverso, apparentemente finto per raccontare il vero. Mi andava di riderci un po’. Era anche divertente, avevamo la musica e un certo tipo di droga legata al ballare. Una libertà di follia che era bellissima, la voglia di trovarsi, l’amicizia, La musica elettronica, che era la mia, i rave, tutta la notte fuori. Posti in cui tutto era possibile, in cui si aprivano degli spiragli meravigliosi in cui non ti giudicava nessuno. 

 

Al centro ci sono dei ragazzi che vivono con libertà la loro età. 

Loro parlano la stessa lingua, si sono trovati, nella loro presunta follia si capiscono. Sono legati da una profonda empatia, anche se sono crudi nel linguaggio fra di loro, mentre gli adulti sono molto attenti alle parole. Hanno acquisito la violenza che sta intorno, possono essere crudeli fra di loro ma si appartengono, hanno un gergo che li accomuna, non si arrabbiano. All’epoca, a 15 anni entravi nel mondo degli adulti e ti vestivi come loro. O eri piccolo o eri adulto. Non era impossibile che una ragazza di 16 anni uscisse con un uomo di 40. Da una parte c’era la sete di esser grandi che appartiene a tutti i ragazzi, dall’altra l’incapacità di proteggere la giovinezza. 

 

C’è anche una tigre fra gli interpreti. 

È legata a un fatto vero avvenuto a Roma. Era scappata da casa del padre di una persona che conoscevo che collezionava animali esotici. Questo fatto mi aveva colpito, l’avevo poi vista morta quando era stata catturata. Certo non è stato facile lavorare con una tigre, anche se è stata brava, ha fatto il suo lavoro. Eravamo tutti terrorizzati, ma in realtà era buonissima, c’è voluto molto per farla sembrare cattiva.   

 

Mauro Donzelli